domenica 27 dicembre 2009

RECENSIONE di Ottaviano Giannangeli

Se avessi un poco di quel tempo, un “granello” (come tu ami dire), che manca a tutti come a te che sei diventata adulta, scriverei per te una lunga recensione, anomala, atipica, dicendo che è il libro di una donna che venti anni fa, nel 1989, si classificò seconda ad un concorso “Una Poesia per il Padre” (1). Il libro mi è parso un piccolo capolavoro: tra il diario e — in alcuni tratti una vera “poesie en prose”. Angelo Fabrizi dice nella prefazione che la “poesia di Montale è il grande fiume a cui hanno attinto i poeti venuti dopo di lui”: è vero anche per me, che mi chiamo “versificatore“ e non poeta. Molte situazioni di scrittura mi sono vicine: la tenerezza con la quale si guarda il vecchio che aspetta sulla panchina (pp. 27-28); ma è impressionante quando si coincide con Patrizia su un argomento certo peregrino, estraneo alla grande letteratura come i muretti di pietra in “attraverso il grigio” (pp. 57-58). Alla poesia Patrizia arriva, proprio in alcuni punti, per distillazione, in virtù dell’alambicco, quando la commozione raggiunge ilo momento di saturazione. (…) Ciò che mi piace della Tocci è lo sprofondare nella visione delle cose, senza pensare ad una gara con altri artisti o ad ammannire qualcosa di bello per il comune lettore. Prosegue la sua operazione scrittoria scendendo fino all’ultimo particolare, pensando che è questa infine, l’unica nostra attività a nostra disposizione per rubare qualcosa al tempo.

Ottaviano Giannangeli

Raiano, Dicembre 2009


1) La poesia “ Navigando” si trova nel primo libro di Patrizia Tocci, Un paese ci vuole (Iapadre, L’Aquila 1990) con prefazione dello stesso Ottaviano Giannangeli.

mercoledì 23 dicembre 2009

Una penna materna: le vere ali del volo (di Luca Lancioni)

Nel libro non c'è rabbia per quello che è accaduto alla città dell'Aquila e il titolo, di per sé, è un ingannatore. Non c'è rabbia nella rappresentazione di questa città perché questa è di una bellezza tipica delle cose che si amano, che riescono a passare di dentro, in linea verticale. Patrizia Tocci non ha rabbia per gli alunni che dicono le parolacce all'uscita da scuola [1]. Invece: chi di noi non ha mai maledetto L'Aquila prima del 6 aprile, chi per quello chi per quell'altro; chi di noi non l'ama oggi, 11 dicembre? Patrizia Tocci l'ama adesso e l'ha amata prima; lo dimostrano le sue parole: sono di una penna materna che si è posta, già in passato, il problema di come lasciare un quadro veritiero della bella città alle generazioni future, ai suoi figli, ai suoi alunni. Infatti, le prime due parti del libro, intra moenia/extra moenia, hanno una limatura [2] ultradecennale che doveva prendere il titolo di “diacromie”. Qui, nella città che volava volare non si intende insegnare ad una rabbia cieca, bensì a stare a terra, anche con una certa leggerezza, per snocciolare una o più verità: le più essenziali.
Nel libro non c'è rabbia ma ciò non significa disinteresse alle cose che danno rabbia. Perché? Semplicemente perché, Patrizia, è un'insegnante. Mai confondere i dilemmi aquilani, le immondizie nazionali, le blandizie statali; non problematiche nazionali e locali nel libro, queste sono soltanto rabbia cieca, ma rappresentare questioni universali, quelle valide per sempre e per questo essenziali. Le cose essenziali sono quelle che hanno il maggiore valore pedagogico, ed è solo con quest' ultime che Patrizia decide di inquadrare la sua città: il colori, i suoni, i profumi (sono queste le verità della città). Nessuno può negare che senza queste cose una città, o una comunità, possano esistere. Ed è qui che la Tocci concentra le sue forze poetiche e pedagogiche perché ha capito che senza quelle coordinate una città non è altro che un contenitore vuoto. Lo stesso Calvino ci insegna che una storia, senza sentimenti, è un contenitore vuoto. Quindi, per avere una storia, c'è bisogno di sentimenti e soltanto i colori, i suoni e i profumi ci danno accesso a quest'ultimi perché confondono e amplificano il nostro povero occhio nudo. I colori, i suoni e i profumi, ecco le cose universali, il segreto dell'essenzialità valida per spiegare ogni città del mondo. Una città senza storia non è una città. Non c'è città senza storia come non esiste un' etnia senza storia. Patrizia ha capito che non ci si può arrabbiare per le parolacce perché queste fanno parte di cerchi concentrici derivanti da un'essenzialità persa di vista dalla vita odierna; si propone, così, di recuperare quel fulcro, quel centro che va spolverato e messo finalmente a nudo. La Tocci è chiara: la ragione può imbrogliarmi ma i miei sensi non possono mentire [3]. Il suo segreto sta nella leggerezza ma, è chiaro, non è una leggerezza contemporanea o televisiva, si tratta di quella leggerezza essenziale ben definita da Calvino: alla precarietà dell'esistenza della tribù […] lo sciamano rispondeva annullando l'esistenza del suo corpo trasportandosi in un altro livello di percezione dove poteva trovare le forze per modificare la realtà [4].
Patrizia Tocci è una penna materna. Nel libro, L'Aquila, assume i connotati di una figlia. La stessa autrice si definisce come una regina tradita e spodestata, improvvisamente esiliata, aggiungiamo, dal sisma del 6 aprile. È “Esilio”, la poesia riportata in prima pagina, prima di intra moenia, prima di entrare dentro le mura.
Patrizia Tocci è una penna materna, e su questo non ci sono dubbi. In un'intervista rilasciata oggi, 11 dicembre, afferma: “Le città non devono volare. Sono fatte per restare a terra e custodire i sogni e le paure degli uomini e delle donne”. Ecco perché il titolo, di per sé, non spiega le forze in campo.
Le città non devono volare: qui siamo dentro le mura e non a caso la poetessa, nelle sue passeggiate, si sofferma tra le porte della città. Siamo dentro le mura e Patrizia si sente madre, come a dire: “Mia figlia non deve volare, deve stare qui, con i piedi per terra, al mio fianco”. Siamo a “Porta Castello”: da qui non è entrato solo il vento. Infatti, nel quarto paragrafo, a fronte degli interrogativi della madre poetessa, è la stessa città che le risponde in prima persona: ho visto passare gli armati e le truppe, uomini e donne di secoli fa […] parlando lingue incomprensibili. Sembra che vuol far presente alla madre che, come città, non è mai stata, poi, così incontaminata. In ogni caso la città è dentro le mura: fuori c'è il bosco, c'è la selva oscura, un luogo di rabbia e di incomprensioni che non hanno valore pedagogico, che non hanno essenza. Patrizia Tocci non crede ai poeti maledetti, non crede alle possibilità del caos. Il caos è nel bosco, questo è un mondo parallelo alla città fatto di tenebre e paure [5]. Per Patrizia la città è solo dentro le mura, queste sono i confini delle cose essenziali della vita. Appena appena extra moenia arrivano le prime insidie: l'inverno cattivo è vicino ma c'è ancora una bella luce... come quei resti di stoffa che mia madre mette da parte [6]. Patrizia Tocci è al confine delle mura ed è da quelle porte che si va extra moenia, nel bosco. E il percorso fuori le mura non è affatto breve e quando Patrizia sarà fuori, desidererà tornare dentro perché sente di essere figlia e non più madre. Crede nell'amore ma si rende conto che esso non è sufficiente, non basta; quindi passeggia nella città tra i rosoni dei portoni, questi riescono a donare un amore vero, materno. Sono i numi che ci proteggono dall'incerto navigare della vita [7] e che riportano all'equilibrio, alla stabilità. Appena si è fuori le mura, infatti, emerge il tema della memoria perché questa è un rifugio; è il primo mezzo adottato per raggiungere quell'equilibrio che si aveva quando si era intra moenia [8]. In questo modo comprendiamo che l'essere dentro o fuori le mura non è solo una condizione fisica ma uno stato d'animo, soprattutto, di equilibrio e non.
Pian piano, col tempo delle stagioni, la città diventa una geografia personale. Il vecchio è già panchina, è già sasso [9]. Patrizia Tocci ci rende coscienti che la città è testimone del tempo che passa perché questa è ben piantata a terra e le persone, invece, sono quelle che corrono veloci; le persone sono soltanto un tempo provvisorio, sono un piccolo atto di una commedia universale il cui palcoscenico è la città. Questa piazza è un immenso palcoscenico a cui conduce la platea dei portici, e ancora: provvisori, seduti sull'orlo di questa fontana mentre volano nell'aria bolle di sapone [10]. La città, insomma, è il tempo vero. Patrizia ne è assolutamente consapevole: sommessamente, nell'intervista, afferma che l'Aquila va tenuta a terra con le catene; infatti quando è fuori le mura si chiede come sia possibile riafferrare la città nella sua essenza universale. In “Periferica”, il suo cogliere le more non è un semplice gesto, è un apprezzare i colori eterni del rovo che sfumano solo con le stagioni. Sono di una saggezza scontrosa. Proprio come i colori invernali di una città di montagna. Siamo in montagna anche se siamo in una città [11].
Si esce e si rientra dalle porte della città in tutti i modi possibili: a piedi, con i colori, con i suoni, con i profumi, con il tempo della memoria, sentendosi madre/figlia. Dipende dall'anima. Esemplari sono le tegole delle case che diventano i tasti di un pianoforte, qui si mescola anche il tono del colore con quello della musica. Sono toni bassi, idonei per scavare in verticale nella propria sensibilità e in quella della città. Sempre le solite diacromie: o tonalità basse o tonalità alte, o scuri o accesi, o estivi o invernali, o primaverili o autunnali, o essere fuori o essere dentro le mura, o essere madre o essere figlia; o essere uomo o essere donna. Due autobus di diversi colori con un uomo e una donna che si guardano: sguardi passavano i vetri ma i colori diversi degli autobus li dividevano... ognuno ha scelto un perimetro [12]. Ordine. Ma, attenzione, la diacromia di Patrizia Tocci non vuole essere fatta di colori a sé stanti, possono anche esserlo, ma la vera diacromia, la vera bellezza, risiede nel loro duale confondersi, nel loro unirsi. Sempre due. Questi sono i colori del rovo che sfumano con le sfumature delle stagioni perché anche le stagioni sono diacromie, sono due: o estate/inverno o primavera/autunno, sono speranza/tristezza, leggerezza/pesantezza.
La Basilica di Collemaggio è simbolo, con la perfezione della sua distanza, della lotta contro il caos. Controlla il bosco e segnala il giusto perimetro. Si trova ad essenziale distanza dalle mura a testimoniare di essere pietra eterna che guarda in verticale: un eterno capitano per governare il caos iroso degli oceani che spingono la nave: la città, L'Aquila, vuole volare ma non deve, dove diavolo vuole volare? Patrizia Tocci, in essa, desidera solo ascoltare la sua musica, di quella che non fa pensare a nient'altro; osservare le stagioni con i suoi colori; gli affetti, anch'essi in diacromia: aspri/dolci, che nel fondersi diventano essenzialmente poetici.
Dopo tutto questo, dopo le diacromie, è arrivato il caos: è arrivato il 6 aprile, il dopo per eccellenza... le prime cose a cadere sono state gli stemmi sui portali [13], le prime cose a cadere... proprio quei rosoni sui portoni: quei numi che ci proteggono dall'incerto navigare della vita, questa volta, non hanno resistito alla rabbia e alla furia cieca e sono volati via lasciando nel vuoto la nostra identità: le ire non sono pedagogiche, sono tutt'altro che costruttive. L'Aquila non deve volare, è la nostra identità che volerebbe via con essa.
Nel dopo affiora il piombo di un dolore sotterraneo, eppure non è finita. La città è ferita ma è ancora cosciente; ancora, nell'attraversarla, si passa velocemente da un quartiere all'altro [14] si può percepire ancora il suono delle campane, è un suono sommerso dall'ombra delle macerie ma ancora si percepiscono. La memoria rimane e le campane sono un grande simbolo, sono quelle che scandiscono il tempo, quello tradizionale, quello umano, quello lento del contadino che torna dal lavoro nei campi e che aspetta il suono della campana che inaugura la festa, che attende l'imbrunire perché coincide con la fine della giornata faticosa per tornare in famiglia, per meditare sul giorno appena passato fumando l'amata pipa. E quanta forza tradizionale c'è in Patrizia Tocci! Quanto amore per gli oggetti tradizionali, che non sono quelli contemporanei creati solo per finire nella spazzatura. La scatola dei bottoni è l'oggetto di una madre: significa custodire l'amore per una famiglia e non dimentichiamolo, per la Tocci, la città, è come una famiglia. I sentieri e le strade del bosco hanno altre mete, altre necessità [15]. Il sisma ha causato il dopo ed è venuto dal bosco: il mondo parallelo, fatto di tenebre e paure [16], ha sfondato le mura della città. La scatola dei bottoni difende dal bosco. La scatola dei bottoni è il preservare, il custodire un'umanità. Nel dopo 6 aprile mi manca quella scatola dei bottoni; eppure, adesso, bisogna spingere negli angoli le paure. In che modo? Come fa mio padre con le cipolle o con le pannocchie di granturco, lasciandole a seccare al caldo e al freddo del tempo [17]. È, quindi, lo stesso movimento delle stagioni che aiuta a sperare. Il mio giardino fiorisce anche senza di me. Questa è la forza interiore di Patrizia Tocci che mirabilmente è riuscita ad individuare i colori del tempo.
Il mondo tradizionale per Patrizia Tocci è anche modernità, ma solo fin dove c'è umanità, fin dove gli oggetti hanno umanità, solo lì può esserci un valore. È “Oddi”, un negozio moderno che rappresentava un periodo ancora umano. Un angolo di città spazzato via da una banca. In quel negozio c'erano oggetti che nessuno voleva più comprare perché nessuno compra più il suo passato prossimo. Patrizia, invece, vuole, e si definisce rigattiere.
Patrizia Tocci non cerca la bellezza ovunque, ma è un rigattiere della bellezza, e l'ha cercata, a L'Aquila e da tempo l'aveva trovata sotto forma di diacromie. La bellezza è difficile da scovare nel veloce mondo contemporaneo e quindi, se i simboli hanno un senso, L'Aquila deve restare così com'è nel gonfalone della nostra città. Torneremo, dice Patrizia Tocci, finalmente, con tono perentorio; forse l'unico un po' rabbioso del libro. Torneremo. Ma lo sappiamo, Patrizia Tocci non blatera, non si arrabbia, soffre in silenzio perché col silenzio può concedere lo spazio all'ascolto e solo ascoltando può apprendere e imparare a edificare, a come recuperare una città. È anche la montagna che l'ha insegnato, è anche L'Aquila che l'ha insegnato. Su di essa incombe l'inverno ma più volte, nel testo, si ribadisce che l'inverno presuppone una primavera; ancora una volta, così, la diacromia ci viene incontro e...
Bisogna saperli vedere i colori dell'inverno [18].

Luca Lancioni


[1] “Blu autobus”, p. 23.
[2] Limatura, ad intendere: limare il guscio per raggiungere il nocciolo (l'anima).
[3] “Utopia”, p. 65.
[4] Italo Calvino “Lezioni americane”, Mondadori. Calvino è citato dalla stessa Tocci: “Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure”. È la ricerca di umanità di Patrizia Tocci.
[5] “La scatola dei bottoni”, p. 89.
[6] “Scampoli”, p. 45. Le stagioni sono anche interiori. Sono stagioni universali. Sono il colore del tempo.
[7] “Pietra serena”, p. 35.
[8] Il tema della memoria è in “L'ortica”, “Il fiume Aterno”. Non a caso sono le prose che aprono la sezione extra moenia.
[9] “La città invisibile”, p. 28.
[10] “Geometrie invisibili” (Piazza Duomo), p. 39.
[11] “Diario apocrifo”, p. 63.
[12] “Blu autobus”, p. 23. I diversi colori degli autobus sono condizione esistenziale: urbano/suburbano. Sono perimetri diversi; appunto, intra moenia/extra moenia.
[13] “Un giro di valzer”, p. 71.
[14] “Anche le pietre parlano”, p.76. Qui la città assume le qualità di un paese.
[15] “Attraverso il grigio”, p. 57.
[16] “La scatola dei bottoni”, p. 89.
[17] “La scatola dei bottoni”, p. 88.
[18] “I colori dell'inverno”, p. 55.

mercoledì 16 dicembre 2009

Sono giorni di silenzioso crescere

Sono giorni di silenzioso crescere
anche se nessuna foglia spunta
e i colori si addicono all’estate.

Sono i giorni dei passi meditati,
un piede dopo l’altro in carovana
( il sentiero dei ricordi è troppo stretto,
quello del futuro l’ ho intravisto
appena tra la nebbia)

Un passo dopo l’altro e qualche sosta
ma nelle stanze aperte e attraversate
oggi posso chiudere la porta.

Patrizia Tocci

sabato 12 dicembre 2009

“La città che voleva volare”: confronto con la scrittrice del libro, Patrizia Tocci

L’AQUILA – La scrittrice e insegnante Patrizia Tocci ha presentato recentemente la sua ultima creazione dal titolo La città che voleva volare, opera in prosa sui drammi dello scorso sisma che ha distrutto il capoluogo abruzzese. Il componimento fa parte della raccolta Diacromie che la Tocci intendeva pubblicare già da tempo, ma proprio a causa del terremoto ha dovuto rinviare il suo progetto. Così alle prime due sezioni già preparate ne ha aggiunta una terza sorta appunto dopo il terribile evento del 6 Aprile.

Patrizia Tocci, nata nel paesino aquilano Verrecchie, non ha desistito al desiderio di descrivere le sofferenze e il panico della sua popolazione costretta ad abbandonare tutto ciò che possedeva sotto cumuli di macerie e polvere e fuggire dove in luoghi più sicuri. Ben cosciente dell’arduo obiettivo prescelto in quanto non sempre è fattibile tradurre in parole scritte le idee e soprattutto le sensazioni percepite in simili circostanze. Ma lei tenace ci ha provato perché desidera,come tanti suoi compaesani, che L’Aquila e tutti i paesi del cratere tornino alla vita di prima,di sempre.

Ci siamo confrontati con lei tramite delle semplici domande che riportiamo di seguito:


- Il titolo della sua opera è LA CITTÀ CHE VOLEVA VOLARE, come mai questa scelta?

R – Il testo in questione, che chiude il libro, è stato scritto tra il dieci e il 18 aprile mentre mi trovavo a Roma, ospite nell’immediata emergenza di mia sorella. Era una considerazione sul volo, sentito come negativo, perché le città non debbono volare. Sono costruite per “restare a terra” e custodire i sogni e le paure degli uomini e delle donne. Quindi il mio titolo va esattamente in senso contrario alla connotazione immediata che il nome della città potrebbe suggerire; devono essere gli uomini e le donne dell’Aquila a curarla, farla rivivere ed ancorarla, dopo questo terribile disastro, con maggiore sapienza alla terra.

- Come altri suoi colleghi anche lei ha provato a descrivere la realtà e le sensazioni presenti in seguito al disastroso sisma dello scorso aprile; ma crede che esistano davvero nel nostro lessico parole adatte per esprimere le sofferenze e i timori avvertiti alle persone non coinvolte direttamente?

R – Anche coloro che tornavano dai lager, i reduci di qualsiasi guerra fanno fatica nel far conoscere agli altri la propria esperienza, ma le parole , con tutti i tradimenti e le traduzioni,servono proprio per comunicare. Il mio libro racconta la città prima e dopo il terremoto; racconta la nostalgia e la tristezza ma anche la speranza e la voglia di ricominciare.

- Pensa che in futuro L’Aquila e i paesi del cratere possano tornare a ‘creare’ nell’arte letteraria oppure questo fenomeno ha segnato i letterati del territorio da avere parole solo per descrivere le conseguenze disagevoli post-sisma?

R – Credo che anche l’elaborazione di un lutto debba, per essere davvero efficace prevedere i due momenti: una elaborazione singola ed una collettiva. Stiamo tentando proprio di fare questo, ricordando i tempi felici e continuando a lottare perché possano tornare. Condividere quindi ricordi e speranze è un continuo affinare la parola poetica perché diventi testimonianza valida per chi ha vissuto quell’esperienza, ma anche una finestra alla quale affacciarsi per chi non l’ha vissuta direttamente .

- Da aquilana, in quanto nativa di Verrecchie, crede che la forza e il coraggio di reagire che hanno dimostrato di possedere i suoi concittadini sia stato utile per metabolizzare le lesioni interiori che ha lasciato lo scorso sisma oppure solo uno stato d’emergenza per provvedere alle necessità?

R – La nostra gente è fiera e caparbia, non lascia trapelare facilmente le emozioni. Sulle mura del forte spagnolo c’è scritto “ad reprimendam audaciam aquilanorum”; gli aquilani non mettono facilmente in piazza emozioni e pensieri; in questi mesi, nonostante una terribile esposizione mediatica si sono sottratti alle telecamere, spesso hanno disertato le passerelle.

- Una domanda che in molti si fanno dal 6 aprile e ci farebbe piacere anche la sua opinione: davanti ad un simile evento catastrofico presagito dagli strumenti, ci siano solo due alternative: non fare nulla o sgomberare un’intera città? Possibile che non esistano vie di mezzo?

R – Certo: d’ora in poi purtroppo tutte le città si doteranno di piani di evacuazione, creeranno punti di raccolta, allestiranno centri di smistamento temporanei, faranno esercitazioni di evacuazione nelle scuole e negli uffici: insomma un piano di emergenza. Per noi, nell’emergenza, tutto questo è mancato. Ci sono state date ampie ed inutili rassicurazioni a cui abbiamo voluto credere. Speriamo, proprio per averlo sperimentato direttamente che non accada più.

- Dalla sua esperienza di scrittrice, insegnante e confrontandosi con le persone residenti nel cratere, crede che una città maestosa e piena di storia come L’Aquila possa ridare, in futuro, fiducia e quel senso di protezione ai suoi cittadini che, immagino, essi avranno perso in quelle sere dello scorso aprile quando sono stati costretti a fuggire di fretta in luoghi più sicuri perchè la loro città che li aveva contenuti e anche protetti in certo senso con abitazioni, lavoro, scuole per i figli e negozi andava distruggendosi in pochi istanti?

R – Credo di si. l’attaccamento e la tenacia che dimostrano gli aquilani nei confronti della città e dei piccoli paesi, la voglia di ricostruzione, il desiderio di riaprire spazi che facciano di nuovo crescere il tessuto sociale, mi fa ben sperare. Le nuove scuole e quelle che sono state ristrutturate sono sicure. Così sarà per gli altri palazzi e le case che verranno ricostruite; certo non si potrà ricostruire quella antichità, quella patina del tempo che rendeva questa città davvero particolare. Ma io non credo che ci sia bisogno di cambiare molto nella ricostruzione. Alcuni abbattimenti saranno necessari, per altri si salveranno persino le pietre.


a cura di Annarita Ferri

http://nuvola.bloo.it/post/240389/la_citta_che_voleva_volare_confronto_con_la_scrittrice_del_libro_patrizia_tocci/

mercoledì 25 novembre 2009

La PRESENTAZIONE di Angelo Fabrizi

Come la “diacronia” indica, per estensione, lo scorrere del tempo, così la diacromia (parola che non trovo nei lessici) indica, per Patrizia Tocci, il trasformarsi dei colori della realtà, di questa il mutare e morire incessante. Sbiadiscono e si modificano continuamente i colori (delle cose e degli organismi viventi), vinti dal colore del tempo.
Tutto è fatto di colori e delle loro infinite sfumature, ma tutto vive di una gara ostinata e già perduta contro il tempo, come nelle ultime foglie, che d’autunno resistono attaccate ai rami, perché l’oro del sole vi si attardi.
La Tocci muove quasi sempre da paesaggi, vedute, incontri, visioni, da cui trarre frammenti di verità, insegnamenti, meditazioni, come se la realtà, la natura esprimessero sensi profondi, lanciassero messaggi. Sospendere il flusso del tempo: lo può la visione di un albero di cachi, carico di piccoli soli, accanto a una vecchia casa, immersa nel silenzio. Si tratta di un sogno (come quello suggerito dal montaliano odore dei limoni) che la quotidianità fa brutalmente svanire.
Gli incanti fuggevoli sono presto divorati dalle ore frettolose, quelle che non bastano mai. Ogni cosa bella ha un risvolto triste. Ecco gli antichi muretti di pietra a secco che delimitano ancora i campi: l’erba li aggredisce, li ricopre, li disgrega, li ridona infine alla terra, pietre tra pietre: tutto si ricompone com’era e nulla sopravvive del lavoro faticoso di chi li ha costruiti, delle necessità di epoche lontane.
I giorni estivi, così belli e lunghi: eppure così veloci nel consumarsi e chiudersi. La città, la sua città, L’Aquila, con le sue vecchie strette strade, i suoi selciati, il suo grigio in tutte le sfumature, con gli antichi bassorilievi di portali e rosoni: piccoli numi tutelari che ci proteggono nell’incerta navigazione della vita.
Un’antica porta della città evoca i suoi scomparsi abitanti, con le loro vesti colorate e la loro lingua incomprensibile. Un vecchio negozio di rigattiere ha lasciato il posto a una banca: un intero mondo, un secolo, anzi un millennio, è stato spazzato via. Tuttavia ha il suo pregio il vivere in una piccola città: si può percorrerla a piedi, partecipare al consolante immutabile rito del vedere e farsi vedere, incontrarsi e riconoscersi.
La basilica di Collemaggio, imponente e impassibile, non si cura del brulichio umano che la circonda di un’umanità sospinta da chissà quale corrente, da quale legge. Nelle cose consumate si mostra lo spessore del tempo. L’insonnia che perseguita fa nascere anch’essa il sogno, il desiderio di realizzare tutti i progetti inevasi, i pensieri lasciati a metà. I sogni sono, quasi sempre, irrealizzabili: tuttavia lasciano in dono qualcosa, una traccia minima, una testimonianza.
Un vecchio, seduto al sole su una panchina aspetta: aspetta la morte. Forse, non aspetta nemmeno più. È già panchina, albero, sasso. Provvidenziale è la smemoratezza, lo smarrirsi delle memorie: come altrimenti sopportare il peso di tutto il tempo trascorso? Tra piante selvatiche e strade abbandonate, accanto a un fontanile senz’acqua si può apprezzare il granello d’incenso del tempo che brucia e non volere, non desiderare più.
Affiorano ricordi d’infanzia, quando realtà e fantasia non avevano confini precisi, tempo di luoghi magici, di corse pazze, di gioie intense. I giochi dei bambini nella piazza centrale dell’Aquila fanno sentire la nostalgia della fanciullezza e il peso del tempo trascorso.
E la poesia da che cosa nasce? Dalla vita semplice, dai ricordi d’infanzia, dai ritmi della natura, dall’amore, dall’insonnia, dalla solitudine, ma essa è per sua essenza nascosta e imprevedibile, e forse è riposta in qualche punto del cielo.
Una forte vena intimistica, un continuo pensoso ripiegarsi entro di sé, uno scrutarsi attento sono le linee guida della scrittura della Tocci in questo suo ultimo volume di poèmes en prose (una prosa scarna e limpida). Lo animano ancora la tormentosa coscienza dello scorrere e svanire di tutto, dell’irrimediabile trasformarsi di costruzioni e paesaggi, e la sfiducia nel mondo storico costruito dagli uomini.
Unico rifugio, unica consolazione o correttivo a un bilancio così amaro si offrono i sogni e la poesia che li esprime, ovvero lo scrivere. Allo scrivere sono dedicate appunto alcune prose. Si può scrivere la sera quando tutto si sospende per un attimo, quando il silenzio permette di ascoltarsi, di strappare parole all’incuria e alla fretta dei giorni.
Volendo nominare un punto di riferimento poetico e culturale di Patrizia Tocci subito bisogna fare il nome di Montale, il grande fiume, al quale tutti i poeti italiani del ’900, venuti dopo di lui, hanno attinto. Impossibile sottrarsi alla potente suggestione della sua vasta opera poetica, o far finta che non ci sia stato. Questo non vuol dire che l’esperienza della poesia si sia fermata. Se, come diceva Montale, la poesia non la si cerca, ma viene da sé imperiosamente, tanto più legittima diventa questa esperienza, che ricerca non è, ma ascolto.
Patrizia Tocci, più umilmente, ritiene che trasformare le idee in parole scritte è una operazione difficile, ardua, perché è difficile e arduo dedurre e proporre relazioni con sé stessi, gli altri e le Cose. Patrizia Tocci ci ha provato. Il risultato è degno di attenzione.
Questo avevo scritto come premessa alla raccolta Diacromie, che Patrizia intendeva pubblicare, quando il terremoto è intervenuto a interrompere anche questo progetto. Patrizia, alle due sezioni già definite della presente raccolta, Intra moenia ed Extra moenia, ha aggiunto una terza sezione, La città che voleva volare, nata dopo l’evento catastrofico del 6 Aprile 2009.
Vi domina lo sgomento per la morte che si è abbattuta sulla città, per le sofferenze della popolazione che ha dovuto abbandonare i luoghi della propria vita, dei propri affetti, delle proprie abitudini: sono bastati venti secondi per distruggere i mondi che abitano in ognuno di noi.
Ora le pietre tanto familiari, le case, le strade, i campanili, gli angoli nascosti, non parlano più. Solo polvere e silenzio ricoprono la città. Con caparbia forza tuttavia, ripete Patrizia continuamente, la città dovrà tornare alla sua vita di sempre, e ad essere quale era, fiera della sua antica bellezza, amata e accogliente. È l’augurio di tutti.

Angelo Fabrizi

martedì 24 novembre 2009

Novità: LA CITTÀ CHE VOLEVA VOLARE di Patrizia Tocci

Una forte vena intimistica, un continuo pensoso ripiegarsi entro di sé, uno scrutarsi attento sono le linee guida della scrittura della Tocci in questo suo ultimo volume di poèmes en prose (una prosa scarna e limpida). Lo animano ancora la tormentosa coscienza dello scorrere e svanire di tutto, dell’irrimediabile trasformarsi di costruzioni e paesaggi, e la sfiducia nel mondo storico costruito dagli uomini.
Unico rifugio, unica consolazione o correttivo a un bilancio così amaro si offrono i sogni e la poesia che li esprime, ovvero lo scrivere. Allo scrivere sono dedicate appunto alcune prose. Si può scrivere la sera quando tutto si sospende per un attimo, quando il silenzio permette di ascoltarsi, di strappare parole all’incuria e alla fretta dei giorni.


Patrizia Tocci è nata nel 1959 a Verrecchie (AQ). Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, insegna materie letterarie negli istituti secondari superiori.
Studiosa di Eugenio Montale e più in generale del Novecento, i suoi articoli e saggi sono stati pubblicati su numerosi periodici e riviste specializzate. È vicepresidente della Associazione Dante Alighieri (sezione di L’Aquila), e presidente dell’Associazione Internazionale di Cultura “Laudomia Bonanni” (sezione “L’Imputata”, L’Aquila).
Ha esordito con una densa raccolta di prose e poesie, Un paese ci vuole (Japadre, L’Aquila 1990), poi ha pubblicato una silloge poetica, Pietra serena (Tabula fati, Chieti 2000). Ha ottenuto consensi in numerosi concorsi letterari.


Patrizia Tocci
LA CITTÀ CHE VOLEVA VOLARE
Presentazione di Angelo Fabrizi
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-184-6]
Pagg. 96 - € 8,00

http://www.edizionitabulafati.it/lacittachevolevavolare.htm