mercoledì 25 novembre 2009

La PRESENTAZIONE di Angelo Fabrizi

Come la “diacronia” indica, per estensione, lo scorrere del tempo, così la diacromia (parola che non trovo nei lessici) indica, per Patrizia Tocci, il trasformarsi dei colori della realtà, di questa il mutare e morire incessante. Sbiadiscono e si modificano continuamente i colori (delle cose e degli organismi viventi), vinti dal colore del tempo.
Tutto è fatto di colori e delle loro infinite sfumature, ma tutto vive di una gara ostinata e già perduta contro il tempo, come nelle ultime foglie, che d’autunno resistono attaccate ai rami, perché l’oro del sole vi si attardi.
La Tocci muove quasi sempre da paesaggi, vedute, incontri, visioni, da cui trarre frammenti di verità, insegnamenti, meditazioni, come se la realtà, la natura esprimessero sensi profondi, lanciassero messaggi. Sospendere il flusso del tempo: lo può la visione di un albero di cachi, carico di piccoli soli, accanto a una vecchia casa, immersa nel silenzio. Si tratta di un sogno (come quello suggerito dal montaliano odore dei limoni) che la quotidianità fa brutalmente svanire.
Gli incanti fuggevoli sono presto divorati dalle ore frettolose, quelle che non bastano mai. Ogni cosa bella ha un risvolto triste. Ecco gli antichi muretti di pietra a secco che delimitano ancora i campi: l’erba li aggredisce, li ricopre, li disgrega, li ridona infine alla terra, pietre tra pietre: tutto si ricompone com’era e nulla sopravvive del lavoro faticoso di chi li ha costruiti, delle necessità di epoche lontane.
I giorni estivi, così belli e lunghi: eppure così veloci nel consumarsi e chiudersi. La città, la sua città, L’Aquila, con le sue vecchie strette strade, i suoi selciati, il suo grigio in tutte le sfumature, con gli antichi bassorilievi di portali e rosoni: piccoli numi tutelari che ci proteggono nell’incerta navigazione della vita.
Un’antica porta della città evoca i suoi scomparsi abitanti, con le loro vesti colorate e la loro lingua incomprensibile. Un vecchio negozio di rigattiere ha lasciato il posto a una banca: un intero mondo, un secolo, anzi un millennio, è stato spazzato via. Tuttavia ha il suo pregio il vivere in una piccola città: si può percorrerla a piedi, partecipare al consolante immutabile rito del vedere e farsi vedere, incontrarsi e riconoscersi.
La basilica di Collemaggio, imponente e impassibile, non si cura del brulichio umano che la circonda di un’umanità sospinta da chissà quale corrente, da quale legge. Nelle cose consumate si mostra lo spessore del tempo. L’insonnia che perseguita fa nascere anch’essa il sogno, il desiderio di realizzare tutti i progetti inevasi, i pensieri lasciati a metà. I sogni sono, quasi sempre, irrealizzabili: tuttavia lasciano in dono qualcosa, una traccia minima, una testimonianza.
Un vecchio, seduto al sole su una panchina aspetta: aspetta la morte. Forse, non aspetta nemmeno più. È già panchina, albero, sasso. Provvidenziale è la smemoratezza, lo smarrirsi delle memorie: come altrimenti sopportare il peso di tutto il tempo trascorso? Tra piante selvatiche e strade abbandonate, accanto a un fontanile senz’acqua si può apprezzare il granello d’incenso del tempo che brucia e non volere, non desiderare più.
Affiorano ricordi d’infanzia, quando realtà e fantasia non avevano confini precisi, tempo di luoghi magici, di corse pazze, di gioie intense. I giochi dei bambini nella piazza centrale dell’Aquila fanno sentire la nostalgia della fanciullezza e il peso del tempo trascorso.
E la poesia da che cosa nasce? Dalla vita semplice, dai ricordi d’infanzia, dai ritmi della natura, dall’amore, dall’insonnia, dalla solitudine, ma essa è per sua essenza nascosta e imprevedibile, e forse è riposta in qualche punto del cielo.
Una forte vena intimistica, un continuo pensoso ripiegarsi entro di sé, uno scrutarsi attento sono le linee guida della scrittura della Tocci in questo suo ultimo volume di poèmes en prose (una prosa scarna e limpida). Lo animano ancora la tormentosa coscienza dello scorrere e svanire di tutto, dell’irrimediabile trasformarsi di costruzioni e paesaggi, e la sfiducia nel mondo storico costruito dagli uomini.
Unico rifugio, unica consolazione o correttivo a un bilancio così amaro si offrono i sogni e la poesia che li esprime, ovvero lo scrivere. Allo scrivere sono dedicate appunto alcune prose. Si può scrivere la sera quando tutto si sospende per un attimo, quando il silenzio permette di ascoltarsi, di strappare parole all’incuria e alla fretta dei giorni.
Volendo nominare un punto di riferimento poetico e culturale di Patrizia Tocci subito bisogna fare il nome di Montale, il grande fiume, al quale tutti i poeti italiani del ’900, venuti dopo di lui, hanno attinto. Impossibile sottrarsi alla potente suggestione della sua vasta opera poetica, o far finta che non ci sia stato. Questo non vuol dire che l’esperienza della poesia si sia fermata. Se, come diceva Montale, la poesia non la si cerca, ma viene da sé imperiosamente, tanto più legittima diventa questa esperienza, che ricerca non è, ma ascolto.
Patrizia Tocci, più umilmente, ritiene che trasformare le idee in parole scritte è una operazione difficile, ardua, perché è difficile e arduo dedurre e proporre relazioni con sé stessi, gli altri e le Cose. Patrizia Tocci ci ha provato. Il risultato è degno di attenzione.
Questo avevo scritto come premessa alla raccolta Diacromie, che Patrizia intendeva pubblicare, quando il terremoto è intervenuto a interrompere anche questo progetto. Patrizia, alle due sezioni già definite della presente raccolta, Intra moenia ed Extra moenia, ha aggiunto una terza sezione, La città che voleva volare, nata dopo l’evento catastrofico del 6 Aprile 2009.
Vi domina lo sgomento per la morte che si è abbattuta sulla città, per le sofferenze della popolazione che ha dovuto abbandonare i luoghi della propria vita, dei propri affetti, delle proprie abitudini: sono bastati venti secondi per distruggere i mondi che abitano in ognuno di noi.
Ora le pietre tanto familiari, le case, le strade, i campanili, gli angoli nascosti, non parlano più. Solo polvere e silenzio ricoprono la città. Con caparbia forza tuttavia, ripete Patrizia continuamente, la città dovrà tornare alla sua vita di sempre, e ad essere quale era, fiera della sua antica bellezza, amata e accogliente. È l’augurio di tutti.

Angelo Fabrizi

martedì 24 novembre 2009

Novità: LA CITTÀ CHE VOLEVA VOLARE di Patrizia Tocci

Una forte vena intimistica, un continuo pensoso ripiegarsi entro di sé, uno scrutarsi attento sono le linee guida della scrittura della Tocci in questo suo ultimo volume di poèmes en prose (una prosa scarna e limpida). Lo animano ancora la tormentosa coscienza dello scorrere e svanire di tutto, dell’irrimediabile trasformarsi di costruzioni e paesaggi, e la sfiducia nel mondo storico costruito dagli uomini.
Unico rifugio, unica consolazione o correttivo a un bilancio così amaro si offrono i sogni e la poesia che li esprime, ovvero lo scrivere. Allo scrivere sono dedicate appunto alcune prose. Si può scrivere la sera quando tutto si sospende per un attimo, quando il silenzio permette di ascoltarsi, di strappare parole all’incuria e alla fretta dei giorni.


Patrizia Tocci è nata nel 1959 a Verrecchie (AQ). Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, insegna materie letterarie negli istituti secondari superiori.
Studiosa di Eugenio Montale e più in generale del Novecento, i suoi articoli e saggi sono stati pubblicati su numerosi periodici e riviste specializzate. È vicepresidente della Associazione Dante Alighieri (sezione di L’Aquila), e presidente dell’Associazione Internazionale di Cultura “Laudomia Bonanni” (sezione “L’Imputata”, L’Aquila).
Ha esordito con una densa raccolta di prose e poesie, Un paese ci vuole (Japadre, L’Aquila 1990), poi ha pubblicato una silloge poetica, Pietra serena (Tabula fati, Chieti 2000). Ha ottenuto consensi in numerosi concorsi letterari.


Patrizia Tocci
LA CITTÀ CHE VOLEVA VOLARE
Presentazione di Angelo Fabrizi
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-184-6]
Pagg. 96 - € 8,00

http://www.edizionitabulafati.it/lacittachevolevavolare.htm