mercoledì 23 dicembre 2009

Una penna materna: le vere ali del volo (di Luca Lancioni)

Nel libro non c'è rabbia per quello che è accaduto alla città dell'Aquila e il titolo, di per sé, è un ingannatore. Non c'è rabbia nella rappresentazione di questa città perché questa è di una bellezza tipica delle cose che si amano, che riescono a passare di dentro, in linea verticale. Patrizia Tocci non ha rabbia per gli alunni che dicono le parolacce all'uscita da scuola [1]. Invece: chi di noi non ha mai maledetto L'Aquila prima del 6 aprile, chi per quello chi per quell'altro; chi di noi non l'ama oggi, 11 dicembre? Patrizia Tocci l'ama adesso e l'ha amata prima; lo dimostrano le sue parole: sono di una penna materna che si è posta, già in passato, il problema di come lasciare un quadro veritiero della bella città alle generazioni future, ai suoi figli, ai suoi alunni. Infatti, le prime due parti del libro, intra moenia/extra moenia, hanno una limatura [2] ultradecennale che doveva prendere il titolo di “diacromie”. Qui, nella città che volava volare non si intende insegnare ad una rabbia cieca, bensì a stare a terra, anche con una certa leggerezza, per snocciolare una o più verità: le più essenziali.
Nel libro non c'è rabbia ma ciò non significa disinteresse alle cose che danno rabbia. Perché? Semplicemente perché, Patrizia, è un'insegnante. Mai confondere i dilemmi aquilani, le immondizie nazionali, le blandizie statali; non problematiche nazionali e locali nel libro, queste sono soltanto rabbia cieca, ma rappresentare questioni universali, quelle valide per sempre e per questo essenziali. Le cose essenziali sono quelle che hanno il maggiore valore pedagogico, ed è solo con quest' ultime che Patrizia decide di inquadrare la sua città: il colori, i suoni, i profumi (sono queste le verità della città). Nessuno può negare che senza queste cose una città, o una comunità, possano esistere. Ed è qui che la Tocci concentra le sue forze poetiche e pedagogiche perché ha capito che senza quelle coordinate una città non è altro che un contenitore vuoto. Lo stesso Calvino ci insegna che una storia, senza sentimenti, è un contenitore vuoto. Quindi, per avere una storia, c'è bisogno di sentimenti e soltanto i colori, i suoni e i profumi ci danno accesso a quest'ultimi perché confondono e amplificano il nostro povero occhio nudo. I colori, i suoni e i profumi, ecco le cose universali, il segreto dell'essenzialità valida per spiegare ogni città del mondo. Una città senza storia non è una città. Non c'è città senza storia come non esiste un' etnia senza storia. Patrizia ha capito che non ci si può arrabbiare per le parolacce perché queste fanno parte di cerchi concentrici derivanti da un'essenzialità persa di vista dalla vita odierna; si propone, così, di recuperare quel fulcro, quel centro che va spolverato e messo finalmente a nudo. La Tocci è chiara: la ragione può imbrogliarmi ma i miei sensi non possono mentire [3]. Il suo segreto sta nella leggerezza ma, è chiaro, non è una leggerezza contemporanea o televisiva, si tratta di quella leggerezza essenziale ben definita da Calvino: alla precarietà dell'esistenza della tribù […] lo sciamano rispondeva annullando l'esistenza del suo corpo trasportandosi in un altro livello di percezione dove poteva trovare le forze per modificare la realtà [4].
Patrizia Tocci è una penna materna. Nel libro, L'Aquila, assume i connotati di una figlia. La stessa autrice si definisce come una regina tradita e spodestata, improvvisamente esiliata, aggiungiamo, dal sisma del 6 aprile. È “Esilio”, la poesia riportata in prima pagina, prima di intra moenia, prima di entrare dentro le mura.
Patrizia Tocci è una penna materna, e su questo non ci sono dubbi. In un'intervista rilasciata oggi, 11 dicembre, afferma: “Le città non devono volare. Sono fatte per restare a terra e custodire i sogni e le paure degli uomini e delle donne”. Ecco perché il titolo, di per sé, non spiega le forze in campo.
Le città non devono volare: qui siamo dentro le mura e non a caso la poetessa, nelle sue passeggiate, si sofferma tra le porte della città. Siamo dentro le mura e Patrizia si sente madre, come a dire: “Mia figlia non deve volare, deve stare qui, con i piedi per terra, al mio fianco”. Siamo a “Porta Castello”: da qui non è entrato solo il vento. Infatti, nel quarto paragrafo, a fronte degli interrogativi della madre poetessa, è la stessa città che le risponde in prima persona: ho visto passare gli armati e le truppe, uomini e donne di secoli fa […] parlando lingue incomprensibili. Sembra che vuol far presente alla madre che, come città, non è mai stata, poi, così incontaminata. In ogni caso la città è dentro le mura: fuori c'è il bosco, c'è la selva oscura, un luogo di rabbia e di incomprensioni che non hanno valore pedagogico, che non hanno essenza. Patrizia Tocci non crede ai poeti maledetti, non crede alle possibilità del caos. Il caos è nel bosco, questo è un mondo parallelo alla città fatto di tenebre e paure [5]. Per Patrizia la città è solo dentro le mura, queste sono i confini delle cose essenziali della vita. Appena appena extra moenia arrivano le prime insidie: l'inverno cattivo è vicino ma c'è ancora una bella luce... come quei resti di stoffa che mia madre mette da parte [6]. Patrizia Tocci è al confine delle mura ed è da quelle porte che si va extra moenia, nel bosco. E il percorso fuori le mura non è affatto breve e quando Patrizia sarà fuori, desidererà tornare dentro perché sente di essere figlia e non più madre. Crede nell'amore ma si rende conto che esso non è sufficiente, non basta; quindi passeggia nella città tra i rosoni dei portoni, questi riescono a donare un amore vero, materno. Sono i numi che ci proteggono dall'incerto navigare della vita [7] e che riportano all'equilibrio, alla stabilità. Appena si è fuori le mura, infatti, emerge il tema della memoria perché questa è un rifugio; è il primo mezzo adottato per raggiungere quell'equilibrio che si aveva quando si era intra moenia [8]. In questo modo comprendiamo che l'essere dentro o fuori le mura non è solo una condizione fisica ma uno stato d'animo, soprattutto, di equilibrio e non.
Pian piano, col tempo delle stagioni, la città diventa una geografia personale. Il vecchio è già panchina, è già sasso [9]. Patrizia Tocci ci rende coscienti che la città è testimone del tempo che passa perché questa è ben piantata a terra e le persone, invece, sono quelle che corrono veloci; le persone sono soltanto un tempo provvisorio, sono un piccolo atto di una commedia universale il cui palcoscenico è la città. Questa piazza è un immenso palcoscenico a cui conduce la platea dei portici, e ancora: provvisori, seduti sull'orlo di questa fontana mentre volano nell'aria bolle di sapone [10]. La città, insomma, è il tempo vero. Patrizia ne è assolutamente consapevole: sommessamente, nell'intervista, afferma che l'Aquila va tenuta a terra con le catene; infatti quando è fuori le mura si chiede come sia possibile riafferrare la città nella sua essenza universale. In “Periferica”, il suo cogliere le more non è un semplice gesto, è un apprezzare i colori eterni del rovo che sfumano solo con le stagioni. Sono di una saggezza scontrosa. Proprio come i colori invernali di una città di montagna. Siamo in montagna anche se siamo in una città [11].
Si esce e si rientra dalle porte della città in tutti i modi possibili: a piedi, con i colori, con i suoni, con i profumi, con il tempo della memoria, sentendosi madre/figlia. Dipende dall'anima. Esemplari sono le tegole delle case che diventano i tasti di un pianoforte, qui si mescola anche il tono del colore con quello della musica. Sono toni bassi, idonei per scavare in verticale nella propria sensibilità e in quella della città. Sempre le solite diacromie: o tonalità basse o tonalità alte, o scuri o accesi, o estivi o invernali, o primaverili o autunnali, o essere fuori o essere dentro le mura, o essere madre o essere figlia; o essere uomo o essere donna. Due autobus di diversi colori con un uomo e una donna che si guardano: sguardi passavano i vetri ma i colori diversi degli autobus li dividevano... ognuno ha scelto un perimetro [12]. Ordine. Ma, attenzione, la diacromia di Patrizia Tocci non vuole essere fatta di colori a sé stanti, possono anche esserlo, ma la vera diacromia, la vera bellezza, risiede nel loro duale confondersi, nel loro unirsi. Sempre due. Questi sono i colori del rovo che sfumano con le sfumature delle stagioni perché anche le stagioni sono diacromie, sono due: o estate/inverno o primavera/autunno, sono speranza/tristezza, leggerezza/pesantezza.
La Basilica di Collemaggio è simbolo, con la perfezione della sua distanza, della lotta contro il caos. Controlla il bosco e segnala il giusto perimetro. Si trova ad essenziale distanza dalle mura a testimoniare di essere pietra eterna che guarda in verticale: un eterno capitano per governare il caos iroso degli oceani che spingono la nave: la città, L'Aquila, vuole volare ma non deve, dove diavolo vuole volare? Patrizia Tocci, in essa, desidera solo ascoltare la sua musica, di quella che non fa pensare a nient'altro; osservare le stagioni con i suoi colori; gli affetti, anch'essi in diacromia: aspri/dolci, che nel fondersi diventano essenzialmente poetici.
Dopo tutto questo, dopo le diacromie, è arrivato il caos: è arrivato il 6 aprile, il dopo per eccellenza... le prime cose a cadere sono state gli stemmi sui portali [13], le prime cose a cadere... proprio quei rosoni sui portoni: quei numi che ci proteggono dall'incerto navigare della vita, questa volta, non hanno resistito alla rabbia e alla furia cieca e sono volati via lasciando nel vuoto la nostra identità: le ire non sono pedagogiche, sono tutt'altro che costruttive. L'Aquila non deve volare, è la nostra identità che volerebbe via con essa.
Nel dopo affiora il piombo di un dolore sotterraneo, eppure non è finita. La città è ferita ma è ancora cosciente; ancora, nell'attraversarla, si passa velocemente da un quartiere all'altro [14] si può percepire ancora il suono delle campane, è un suono sommerso dall'ombra delle macerie ma ancora si percepiscono. La memoria rimane e le campane sono un grande simbolo, sono quelle che scandiscono il tempo, quello tradizionale, quello umano, quello lento del contadino che torna dal lavoro nei campi e che aspetta il suono della campana che inaugura la festa, che attende l'imbrunire perché coincide con la fine della giornata faticosa per tornare in famiglia, per meditare sul giorno appena passato fumando l'amata pipa. E quanta forza tradizionale c'è in Patrizia Tocci! Quanto amore per gli oggetti tradizionali, che non sono quelli contemporanei creati solo per finire nella spazzatura. La scatola dei bottoni è l'oggetto di una madre: significa custodire l'amore per una famiglia e non dimentichiamolo, per la Tocci, la città, è come una famiglia. I sentieri e le strade del bosco hanno altre mete, altre necessità [15]. Il sisma ha causato il dopo ed è venuto dal bosco: il mondo parallelo, fatto di tenebre e paure [16], ha sfondato le mura della città. La scatola dei bottoni difende dal bosco. La scatola dei bottoni è il preservare, il custodire un'umanità. Nel dopo 6 aprile mi manca quella scatola dei bottoni; eppure, adesso, bisogna spingere negli angoli le paure. In che modo? Come fa mio padre con le cipolle o con le pannocchie di granturco, lasciandole a seccare al caldo e al freddo del tempo [17]. È, quindi, lo stesso movimento delle stagioni che aiuta a sperare. Il mio giardino fiorisce anche senza di me. Questa è la forza interiore di Patrizia Tocci che mirabilmente è riuscita ad individuare i colori del tempo.
Il mondo tradizionale per Patrizia Tocci è anche modernità, ma solo fin dove c'è umanità, fin dove gli oggetti hanno umanità, solo lì può esserci un valore. È “Oddi”, un negozio moderno che rappresentava un periodo ancora umano. Un angolo di città spazzato via da una banca. In quel negozio c'erano oggetti che nessuno voleva più comprare perché nessuno compra più il suo passato prossimo. Patrizia, invece, vuole, e si definisce rigattiere.
Patrizia Tocci non cerca la bellezza ovunque, ma è un rigattiere della bellezza, e l'ha cercata, a L'Aquila e da tempo l'aveva trovata sotto forma di diacromie. La bellezza è difficile da scovare nel veloce mondo contemporaneo e quindi, se i simboli hanno un senso, L'Aquila deve restare così com'è nel gonfalone della nostra città. Torneremo, dice Patrizia Tocci, finalmente, con tono perentorio; forse l'unico un po' rabbioso del libro. Torneremo. Ma lo sappiamo, Patrizia Tocci non blatera, non si arrabbia, soffre in silenzio perché col silenzio può concedere lo spazio all'ascolto e solo ascoltando può apprendere e imparare a edificare, a come recuperare una città. È anche la montagna che l'ha insegnato, è anche L'Aquila che l'ha insegnato. Su di essa incombe l'inverno ma più volte, nel testo, si ribadisce che l'inverno presuppone una primavera; ancora una volta, così, la diacromia ci viene incontro e...
Bisogna saperli vedere i colori dell'inverno [18].

Luca Lancioni


[1] “Blu autobus”, p. 23.
[2] Limatura, ad intendere: limare il guscio per raggiungere il nocciolo (l'anima).
[3] “Utopia”, p. 65.
[4] Italo Calvino “Lezioni americane”, Mondadori. Calvino è citato dalla stessa Tocci: “Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure”. È la ricerca di umanità di Patrizia Tocci.
[5] “La scatola dei bottoni”, p. 89.
[6] “Scampoli”, p. 45. Le stagioni sono anche interiori. Sono stagioni universali. Sono il colore del tempo.
[7] “Pietra serena”, p. 35.
[8] Il tema della memoria è in “L'ortica”, “Il fiume Aterno”. Non a caso sono le prose che aprono la sezione extra moenia.
[9] “La città invisibile”, p. 28.
[10] “Geometrie invisibili” (Piazza Duomo), p. 39.
[11] “Diario apocrifo”, p. 63.
[12] “Blu autobus”, p. 23. I diversi colori degli autobus sono condizione esistenziale: urbano/suburbano. Sono perimetri diversi; appunto, intra moenia/extra moenia.
[13] “Un giro di valzer”, p. 71.
[14] “Anche le pietre parlano”, p.76. Qui la città assume le qualità di un paese.
[15] “Attraverso il grigio”, p. 57.
[16] “La scatola dei bottoni”, p. 89.
[17] “La scatola dei bottoni”, p. 88.
[18] “I colori dell'inverno”, p. 55.

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